sabato 12 settembre 2009

Principessa di cristallo

Era la notte dei fiori sanguigni, speziati, golosi.

Era la notte delle foreste magiche, quando e dove le ballate, le meraviglie diluite tra il tabacco, il sapore e lo zuccherino si divertivano a giocare tra loro. Le resine del bosco si mescolavano con arboree carni, leggende imporporate di calore divampando ardevano ad un soffio sotto l’infinito. E dentro un cielo perfettibilmente indifferente giacevano scaglie di divino, pronte per il nulla, ordinatamente protese verso il caos, silenti, luminose, maliziose.

Il prato riposava tra la foresta e una distesa di girasoli decapitati, la notte semplicemente in sospensione, l’aria acquietata dalla gelidessenza patinata di una luna impassibile, un settembre nostalgico e pronto a finire. L’ultima lucciola librata in volo, languidamente lasciava la scia leggera nell’ultimo livore solare, appena prima di morire. E la goccia di rugiada, principessa fra mille, ristette a guardare la morente bollicina di sole, la vestì col suo liquido licore abbracciandone l’essenza, la pienezza, l’ardore illegittimo in piano di morte. Guardò la luna, cominciò a sognare.

Io sono una piccola goccia di rugiada, ma guardami. Io sto brillando. La lucciola che rivesto, ora muore, ed io mai più sarò. Dammi Luna, le spoglie che vorrai. Ma ti prego, che io possa non dissolvermi in una notte. Che io possa essere, come la lucciola, di sole. Che io possa, come acqua, mai finire, ripetere infinite volte infinite vite possibili.

E prima che la lucciola si spegnesse, la Luna volse lo sguardo alla terra, volse lo sguardo alla piccola goccia di rugiada, luminosa da perdere la testa, iridata, perlescente, pulsante, radiosa.

La trasformò in piccola scintilla immortale, immorale beltà, una breccia di cristallo luminoso, una vivida, volatile, eterea evanescenza, ebbra di luce e di splendore, lucida di pagliuzze boreali, gravida di oro, vibratile, emanante.

Così. Libera. A spasso girandolando illuminava ogni angolo della notte, dove, specchiandosi e vivacizzando a getto, beandosi vagolava.

Ma al mattino il solleone spazzò con disinvolta pienezza ogni ombra, gonfia o sottile.

Ogni scampolo buio venne meno, aprì le mille braccia a raggiera sopra ogni cosa. Le stelle impallidirono chinandosi a parte, il bosco divenne da nero a verde, scomparve il tulle delle nebbie a fior di terra, si dissolse l’atmosfera clandestina. Quando la breccia, ballando e bellendo venne sorpresa, si scottò d’incanto dentro il ritmo audace del sole che, attraversandone l’anima, la colse nella luce.

La rugiada di cristallo sentì pervadersi dal feroce calore, lasciando entrare ciò che mai avrebbe potuto sfiorare, moltiplicando. Ancora volgendo le spalle, ma ardendo sincrona e frizzando, ebbra di imperturbabilità rubata, impossibile da replicare.

Così improbabile e leggera se ne andava, senza meta precisa se non quella di essenziare, caricata nel dono incorruttibile della luce, fiamma stupendamente gentitrice e perigliosa, spigoli divampanti, gocce laviche, roventi emanazioni. Destreggiandosi nella fazione eterea degli dèi, cui non poteva appartenere. Quindi immergendosi nel vuoto tra le stelle, sorridente e danzante, lo sguardo sovraccarico, accecato dal sè e dal sole, gli odori tutti per sè, scintillando per effetto di una combustione inaspettata, proiettando e sospingendo esplosioni febbricitanti.

Ma le stelle si spogliarono della loro leggendaria imperturbabilità, offese, indignate, perplesse, feroci. Contro l’inaccettabile goccia di cristallo, ebbra di sole, danzante, luminosa, patetica agli occhi degli dèi. Così che le stelle la additarono, minacciose, incattivite, fulminanti. Immergendola in un’ondata di sordide risate, rimbalzandola di dove in dove, ferendo, pungendo, lo scherno affilato, la miserrima genesi del suo flebile esistere a bandiera contro, quando non c’è posto tra gli dèi, se non nasci al di qua della tagliola degli immortali.

E la piccola breccia di cristallo corse al sole per cercare rifugio, benchè fiera, seppur ferita, per cercare protezione.

Ed all’avvicinarsi della piccola principessa di cristallo, il sole, essendo, la bruciò.

Esplodendola in un milione di bruscoli d’oro, a pioggia in ogni dove, sotto il naso delle stelle che stavano a guardare. Nel silenzio, non una lacrima, non un rimpianto. Tutto rimase imperturbabile come prima del risveglio della goccia di rugiada, che una notte vestì di liquido una piccola morente pancia luminosa. Innamorandosi di una vita che non osava sognare. In una notte di belletti e crinoline. Una notte prima della notte dopo.

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